È cosa risaputa, in politica economica, che in presenza di crisi strutturali la discontinuità politica rappresenta, quasi sempre, un elemento di criticità che finisce per accelerare la dinamica negativa già in atto. In altre parole, quando c’è recessione, alla politica viene chiesta stabilità. E vale anche, e soprattutto, per l’Argentina.

economia argentina default fallimento


Nessuno stupore, quindi, se l’inatteso esito delle elezioni primarie tenute lo scorso 11 agosto, che hanno visto il candidato neo-peronista Alberto Fernández trionfare sull’attuale, liberale e market-oriented presidente Mauricio Macri, ha dato un ulteriore scossone alla già provata economia argentina. Il peso è calato, nella sola giornata di lunedì 12 agosto, del 30 per cento sul dollaro (e ad oggi non si può dire quando, e se, si riprenderà), mentre la Borsa di Buenos Aires ha avuto uno scivolone del 40 per cento: il secondo maggior crollo al mondo, dopo quello avvenuto in Sri Lanka negli anni 80 del secolo scorso.

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Macri, dal canto suo, ha subito sostituito il ministro delle Finanze, Nicolás Dujovne, con il fedelissimo Hernán Lacunza, e varato una serie di misure anticrisi: aumento del salario minimo, congelamento dei prezzi dei carburanti, sgravi fiscali per i meno abbienti e le piccole imprese.


Tuttavia, fra i mercati sembra essersi diffusa la sensazione che sia troppo tardi, e che l’esito delle elezioni del prossimo 27 ottobre sia ormai scontato. Facendo notare, peraltro, che se venissero mantenute le percentuali delle primarie (48 a 33 per cento a favore di Fernández) non si andrebbe neppure al ballottaggio, dato che si considera maggioranza assoluta già il 45 per cento, e si può vincere al primo turno pure con il 40, purché ci siano almeno 10 punti di vantaggio sul secondo. Il tutto, in uno scenario in cui se l’attuale amministrazione dovesse perdere ulteriormente consensi, nessuno se ne stupirebbe.

A quel punto, lo scenario più probabile sarebbe l’ennesima ristrutturazione del debito pubblico argentino, che oggi ammonta a 330 miliardi di dollari, dei quali “solo 80 convertibili in pesos”, nelle parole di Joseph Mouawad, analista presso una quotata società internazionale di asset management.

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Già oggi, i bond sono quotati a non più del 40-45 per cento del valore nominale, e quindi un haircut (taglio del valore nominale) del 60, se non del 65 per cento è un’ipotesi più che verosimile. Una riduzione che potrà essere varata solo in parte con leggi argentine: per 60 miliardi occorrerà un accordo con il Fondo monetario internazionale, e per una cifra analoga un’ulteriore intesa, con gli altri creditori internazionali.

Una strada certamente impervia, ma anche “l’unico modo per evitare un caotico default”. Certo, non sarebbe la prima volta. Il fallimento dello Stato è l’autentica maledizione dell’Argentina, un paese ricchissimo di risorse naturali, con una popolazione acculturata, agricoltura e industria diversificate, eppure condannato a un sistemico destino di disgrazia economica.


Fin dal 1824, appena otto anni dopo l’indipendenza dalla Spagna, quando un prestito di un milione di sterline ottenuto da una banca londinese, usato per finanziare la costruzione del porto di Buenos Aires, non fu mai restituito, e costituì il primo dei 14 default, fra totali e parziali. Storia ripetuta nel 1890, quando si bloccò la restituzione dei debiti accesi per finanziare l’impetuoso sviluppo immobiliare della capitale, e svariate volte ancora, fra cui quella del 1982, legata ai pagamenti internazionali dovuti dopo la sconfitta nella guerra per le Falkland-Malvinas. Fino alla madre di tutti i fallimenti, in quel 2002 dove fu fatale il mix fra eccessive spese statali e l’infausta decisione di agganciare il peso al dollaro.

Un cambio 1 a 1 che letteralmente strozzò l’economia, ed ebbe effetti totalmente contrari a quelli, anti-inflattivi, che ci si era prefissati. Dando poi origine ad un perverso circolo vizioso, per cui ogni volta bisogna ricominciare da capo, con nuovi prestiti concessi a condizioni sempre più dure, e sotto la vigilanza sempre più severa di mercati e istituzioni finanziarie internazionali.


Ogni fallimento, insomma, porta con sé i germi di quello successivo, e a volte avvia vicende destinate a risolversi dopo decenni. Come quella, iniziata proprio col default del 2002, dei famigerati ‘tango bonds’, risolta solo nel 2016 con gli accordi di compromesso. Una soluzione, prima resa impossibile per l’intransigenza dei vari governi dell’Argentina, che era il fiore all’occhiello di Macri, e il simbolo della riammissione del paese nella comunità finanziaria internazionale. Tutto ottenuto grazie all’adozione di politiche economiche rigorose, nettamente in contrasto con quelle populiste dei due Kirchner.

Ma alla lunga, il rigore di bilancio e i tagli ai sussidi non bastano, da soli: e il 2018, che doveva essere l’anno del trionfo per il presidente (da suggellare con il G20 di novembre) ha invece sancito il fallimento, ormai definitivo, di una linea di politica economica che ha palesemente mostrato i suoi limiti e, peggio ancora, una fatale incapacità nel superarli.

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