Qualcuno è arrivato, addirittura, a proporre una “dollarizzazione” dell’Argentina, sostituendo il peso con il dollaro nelle transazioni finanziarie. In pratica, “seppellire” l’attuale moneta nazionale, riducendola a mero strumento di scambio commerciale interno, e sostituendola con quel biglietto verde che del resto è già, e da molto tempo, uno dei beni rifugio preferiti dagli argentini.

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Una provocazione, forse anche qualcosa in più, ma non certo una soluzione per una crisi che appare sempre più profonda, soprattutto dopo l’esito delle elezioni primarie.

Dopo il trionfo del peronista Alberto Fernández, i mercati sono letteralmente fuggiti dall’Argentina, e sembra quasi una beffa che la presidenza di Macri, il liberista, vada a (probabilmente) concludersi con il ripristino dei controlli sui capitali, e l’annuncio di un reprofiling del debito verso il Fondo monetario internazionale.


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D’altronde, le scelte a questo punto sono obbligate. Alla fine di agosto il cambio peso dollaro era crollato fino a sfiorare 60, con i bond di nuovo ai minimi storici, e le obbligazioni a cento anni (fra i fattori che più avevano indotto a ben sperare) crollate sotto i 38 centesimi di dollaro.

Le misure varate dal governo hanno in effetti placato un po’ gli animi, facendo risalire i bond a 47, mentre il peso va rafforzandosi (attorno al 6 per cento, nel momento in cui si scrive). Ma trattasi di un sollievo temporaneo, di una “calma apparente”.

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Vero è che i mercati, che a volte addirittura “anticipano” la politica, hanno già scontato la sconfitta di Macri alle primarie. Ma è su cosa farà Washington, di fronte alla ristrutturazione unilateralmente annunciata da Buenos Aires, che si concentrano i maggiori timori. Pagherà la nuova tranche da 5,4 miliardi, oppure porrà fine agli aiuti, con conseguenze inimmaginabili?

A questo punto, anche se il prossimo 27 ottobre dovesse vincere Macri, gli aiuti del Fmi resterebbero in forse, perché l’istituto certamente non accetterà di buon grado che vengano disattesi gli accordi presi solo un anno fa. Fernández, dal canto suo, ha già fatto sapere che chiederà una rinegoziazione strutturale del debito.

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