L’Unasur è morta: ne è convinta l’Argentina. Il Sudamerica non parlerà mai con una voce unica. La Isla Margarita non è Ventotene e i Paesi del subcontinente non hanno mai avuto i loro De Gasperi, Adenauer e Schuman. Le divisioni sono sempre così evidenti, come marcate sono le differenze politiche. Nel 2008 si era tentato di andare al di là della sterilità del Mercosur – che nei fatti è rimasto quello che negli anni Novanta si studiava sui manuali italiani di diritto internazionale – con l’istituzione dell’Unasur.

Acronimo ambizioso: Unione delle nazioni dell’America del sud. Dodici Stati, compresi i piccoli Suriname e Guyana. Obiettivi altrettanto ambiziosi, forse troppo: diventare l’Unione europea del Nuovo mondo, includendo, come osservatori, Messico e Panama. Arrivare, dunque, al confine meridionale degli Stati Uniti. Gli ispiratori di Unasur sognavano in grande, fino a una moneta e un parlamento comune.

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Erano gli anni in cui in Sudamerica ‘regnavano’ i governi riformisti, salvo rarissime eccezioni, e questo portò al Trattato di Brasilia. “Unidos triunfaremos”, era – di nuovo – il motto del periodo. Un funzionamento organizzato ma ridotto: si decide a suon di consigli di capi di Stato, di ministri, di delegati. C’è un segretario generale e la presidenza pro tempore: un anno a Stato membro. Consultazioni tante, risultati pochi: qualche opera infrastrutturale che ricade nel territorio di due o più Paesi, spiccioli accordi doganali. Ma sarebbe più corretto cominciare a parlare al passato.


La onerosa sede, a Quito, è nelle mire del presidente Lenín Moreno, che vorrebbe trasformarla in una università. Ma per farlo dovrebbe denunciare il trattato costitutivo e ricordare che, in fondo, i costi di costruzione sono stati una voce di spesa del bilancio equadoriano ben oltre i 45 milioni di dollari previsti. Fondi per mantenerla non ce ne sono, stipendi del personale, già ridotto, garantiti fino al 31 luglio. Incertezza anche sulla sede del parlamento, invece, costata 65 milioni di dollari e praticamente mai utilizzata, ubicata fuori dalla città boliviana di Cochabamba. Il destino sembra segnato.

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A sottolinearlo è anche l’Argentina per bocca del suo ambasciatore in Bolivia, Normando Álvarez García: “La situazione di Unasur è complicata. Dovremo ripensare a un nuovo blocco con gli stessi partecipanti”. Parole che hanno un senso tutto politico. Perché non è il ‘cosa’ ma il ‘come’. Se l’organizzazione sta collassando è perché non ci sono più Lula-Rousseff, i Kirchner, Correa, che almeno sulla carta riuscivano a fare fronte comune. Iván Duque Márquez, il presidente eletto colombiano non ancora in carica, ha già informato che porterà fuori il suo paese da un organismo definito “cassa di risonanza del regime di Nicolás Maduro”.

L’Argentina – insieme a Brasile, Paraguay, Cile e Perù – si è di recente allontanata dal gruppo denunciando una cattiva gestione che, tra le altre cose, ha reso impossibile insediare un segretario generale.

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A sperare di salvare la morente Unasur è la Bolivia e da Caracas fanno sapere che La Paz può contare sul suo sostegno. Il presidente del Venezuela, pur ammettendo che l’Unasur “ha avuto dei problemi ultimamente”, ha affermato che “va difesa” e che lo faranno “i movimenti sociali e rivoluzionari dell’America del sud se qualche governo di destra tenterà di pugnalarla per dissanguarla”. Ma l’ostacolo è proprio quello.

Eppure, visto da chi ha vissuto il sogno europeo, anche quello sarebbe un grande progetto, con un potenziale demografico ed economico enorme e un peso politico che potrebbe, almeno in parte, promuovere i ‘latinos unidos’ a grande attore della geopolitica multipolare.

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