La ‘storia’ del coronavirus in Argentina è cominciata il 3 marzo, data in cui è stato accertato il primo caso nel paese. Si trattava di un cittadino di ritorno dall’Europa, proprio nel momento in cui il Vecchio continente entrava nell’incubo pandemia. Pochi i contagi in Argentina nelle settimane immediatamente successive fino alla decisione del governo di Buenos Aires di ricorrere al lockdown, dal marzo. Una scelta evidentemente di prevenzione.
Da allora diversi sono stati i gradi di applicazione delle misure di distanziamento, a seconda delle fasi e dell’intensità della circolazione del virus nelle varie aree del paese. Di proroga in proroga, fino all’11 ottobre, data in cui scadrà l’ultima estensione della quarantena.
A oltre sei mesi dal primo decreto di lockdown, tuttavia, il coronavirus in Argentina è stato un crescendo, fino a ritrovarsi, con oltre 765mila casi al 2 ottobre, all’ottavo posto mondiale nel rendiconto della Johns Hopkins University. Oltre ventimila le vittime, secondo il ricalcolo del ministero della Salute.
Per diversi mesi, il virus è sembrato radicarsi quasi esclusivamente nell’area metropolitana di Buenos Aires: capitale e hinterland hanno per diverso tempo sommato il 90 per cento dei casi totali di coronavirus in Argentina. La situazione è cambiata nella seconda metà del mese di settembre, con evidente circolazione in tutte le province, con punte in quelle di Santa Fe e Córdoba.
Tutte ora vivono la stessa situazione che presentava la capitale sei mesi fa, nonostante, a livello mondiale, faccia notizia ‘l’eterna quarantena dell’Argentina’. In altri termini: con misure in atto, cosa ha portato a una diffusione così ampia del Covid-19?
Una prima ragione risiede nel fatto che il lockdown dal 20 marzo si è andato subito trasformando in un mix tra misure strettissime per l’area metropolitana di Buenos Aires e diversa gestione delle restrizioni nel resto del paese, adattandole alle singole situazioni di fatto. Questo, secondo gli addetti ai lavori, ha innescato un sistema ‘ibrido’ che non ha consentito di fermare, o almeno limitare, la diffusione del virus.
Viene proposto il caso della provincia di Jujuy, tra le prime a presentare un numero di casi elevato, non escludendo l’importazione attraverso il via vai attraverso la frontiera con la Bolivia. Secondo l’infettivologa Isabel Cassetti sarebbe mancata una risposta rapida prevedendo, a livello nazionale, una diffusione piuttosto rapida del contagio anche al di fuori della stessa provincia.
A ogni modo, gli esperti sottolineano la combinazione di due fattori: una risposta troppo lenta di numerose province e la responsabilità sociale. Quest’ultima, dalle istituzioni, è stata più volte invocata come principale arma contro l’epidemia. Spesso, però, disattesa nonostante il divieto di riunioni, anche nei domicili privati.
Secondo gli esperti, già mesi fa era altamente probabile che dalle principali zone urbane il virus si espandesse verso le zone interne del paese. Questo richiedeva la predisposizione di un adeguato sistema sanitario e i mezzi di protezione della popolazione. Cioè, tra le altre cose, un programma di assistenza di base, cercare i casi attraverso il cosiddetto contact tracing per potere isolare i possibili casi positivi.