Sono oltre mille le condanne inflitte per i crimini commessi durante l’ultima dittatura argentina, dal 1976 al 1983, colpevole anche dei 30mila desaparecidos. Il dato è spiegato in occasione del 45esimo anniversario dell’inizio dell’ultima parentesi autoritaria, il 24 marzo del 1976 dalla speciale procura, la Procuraduría de Crímenes contra la Humanidad.
Dall’avvio dei processi a carico dei diversi esponenti del regime militare alla fine del 2020 gli imputati sono stati 3.448. Le sentenze finora sono state 250 prevedendo condanne per 1.013 persone e 164 assoluzioni. Dei condannati solo 276 hanno almeno una sentenza definitiva.
Emerge, inoltre, che del totale chiamati a rispondere nelle aule della giustizia, sono 904 le persone decedute negli anni dei processi, 692 dei quali prima di arrivare alla definizione del giudizio e 212 dopo le sentenze di condanna o assoluzione. Ma sono ancora 25 gli imputati per crimini di lesa umanità commessi durante la dittatura argentina ancora latitanti. Su questi l’Argentina ha istituito ‘taglie’ tra i 50mila e un milione di pesos, dai 450 a quasi 9.200 euro al cambio attuale.
Quello della giustizia argentina nei confronti degli uomini del regime non è stato un cammino agevole dal primi processi ai vertici delle giunte militari. L’ostacolo, anche nei confronti dei ranghi inferiori, è stato determinato dalle leggi conosciute come dell’Obediencia Debida e del Punto Final, volute dall’ex presidente raadicale Raúl Alfonsín, tra il 1985 e il 1986.
Col fine di costruire un clima di riappacificazione sociale, hanno impedito giudizi ed esecuzione delle condanne già comminate. Il patto di impunità si è poi consolidato con provvedimenti ad hoc del successivo presidente Carlos Menem con veri e propri indulti a favore dei militari. Fino al 2005 quando, durante il mandato del presidente Néstor Kirchner, la corte suprema ha dichiarato l’incostituzionalità delle norme precedenti permettendo di riavviare i processi.
Negli ultimi anni è notevolmente aumentato il numero delle istanze per l’ottenimento detenzione domiciliare, supportate dall’avanzata età dei condannati, alle quali si è andata a sommare la stessa possibilità fornita dall’emergenza coronavirus negli istituti di pena.
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