Un 92enne italiano che vive a Monte Grande, una località poco otre Lomas de Zamora, nella provincia di Buenos Aires. Luciano Marson è un ‘comune’ italiano d’Argentina se non fosse per la sua storia. Che attraversa la pagina più buia di quella italiana. Nato a Pravisdomini, in provincia di Udine, all’età di sedici anni si unì alla Resistenza partigiana, prima di finire nel campo di concentramento di Dachau.

Al suo arresto fu portato in un carcere italiano dove ci rimase per due settimane. “Ogni giorno arrivava una guardia che portava via vari prigionieri per la fucilazione. Io mi salvai perché un treno diretto in Germania aveva venti posti liberi. I tedeschi erano precisi, volevano cinquanta persone in ogni vagone. Quattro giorni in quel vagone senza mangiare né bere nulla. Arrivammo tutti nudi e ci fecero scendere a colpi di frusta, destinati ai lavori forzati”.


Marson, in Argentina, ha vissuto anche da italiano come tanti immigrati di prima generazione, da socio di Fedital e presidente della Sociedad Italiana de Monte Grande. Lì, nel 1999, ha anche dato vita a Puente Verde, una scuola per disabili. E ha ancora il forte desiderio di raccontare la sua storia.


A Dachau fu portato nel febbraio del 1945, dopo essere stato arrestato il giorno del suo diciottesimo compleanno. Ha avuto la fortuna di uscirne vivo, e al Clarín racconta anche come riuscì a evitare la morte. Nei dodici anni di funzionamento del campo nazista, sono stati duecentomila i prigionieri tra ebrei, omosessuali, comunisti e gitani. Da quel momento non era più Luciano Marson: era il numero 142.184.

luciano marson resistenza dachau argentina monte grande


“Mi salvai grazie a un paio di scarpe, un pezzo di carbone e un inganno”, racconta Luciano. “Quando arrivai al campo di concentramento erano terminati gli zoccoli che davano ai prigionieri e mi lasciarono le mie scarpe. La stessa notte un capo del padiglione in cui dormivamo mi offrì cinque pezzi di pane in cambio delle scarpe. In realtà me ne dette solo tre, che comunque mi servirono a integrare i pasti per alcuni giorni”.

“Poco tempo dopo fui colpito da diarrea. Sapevo che se mi fossi ammalato sarei morto. Non dissi nulla a nessuno e quando uscii per lavorare, come tutti i giorni, alla riparazione dei binari danneggiati dalle bombe, raccolsi un pezzo di carbone che trovai tra le pietre. Lo nascosi in tasca e lo mangiai di notte al ritorno nel campo”.

luciano marson resistenza dachau argentina monte grande


Così Luciano riuscì a guarire e cominciò a fare commercio di pezzi di carbone con un siciliano addetto alle pulizie nei padiglioni in cambio di tozzi di pane. Poi arrivò il momento in cui avrebbe dovuto andare alla morte, e fu anche il momento dell’inganno con cui si salvò. “Un giorno prepararono una lista di 25 prigionieri che dovevano presentarsi all’uscita del campo. Io ero uno di loro, ma mi nascosi e mi presentai più tardi. Erano già andati via. E nessuno di loro tornò”.

Luciano Marson è convinto di essere sopravvissuto perché “ho avuto il coraggio di voler vivere. Volevo tornare a casa”. Ed è andata così. Il 29 aprile del 1945 – “esattamente alle 16.30”, sottolinea – arrivarono le truppe americane. Un aereo che volava basso, i rumore delle bombe. Poi il silenzio e i prigionieri che cominciavano a uscire dal buio dell’orrore muovendosi verso il piazzale centrale. I soldati Usa trovarono 7.400 cadaveri. I vivi erano 32mila.

luciano marson resistenza dachau argentina monte grande

Luciano non ricorda i nomi di tutti i morti, “ma ricordo le ultime parole che pronunciavano prima di chiudere gli occhi. Parlavano della madre e della patria”. A morire fu l’uomo con cui condivideva lo spazio per dormire, un russo. “Non informai subito della sua morte in modo da potermi prendere il suo pezzo di pane del mattino e il suo maglione…”.

Dalle tenebre di Dachau alla nuova vita in Argentina, che ringrazia sempre “per la pace e l’affetto che mi ha dato quando arrivai solo al porto di Buenos Aires con una cassetta di utensili”. Era il 1950, si insediò a Monte Grande cominciando a lavorare come muratore. Il capomastro, racconta, gli aveva permesso di portarsi a casa un mattone al giorno. Dopo un mese aveva trenta mattoni, la base sulla quale costruire il suo futuro.

Un uomo che era riuscito a scampare alla morte di Dachau non poteva non avere la determinazione per guadagnarsi la vita. Lavorò come idraulico con i ‘ferri’ che si era portato dall’Italia, per poi cominciare a lavorare la lana e fondare la sua azienda di pullover. Lì conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie: Antonietta, di origine napoletana, madre dei suoi tre figli. Anni dopo la decisione di aprire quella scuola per disabili e ciechi: “Avevo bisogno di restituire all’Argentina un po’ di tutto quello che mi aveva dato”.

Recentemente Luciano Marson è stato insignito del Diploma d’onore come combattente per la libertà d’Italia e ha cominciato a scrivere un libero sulla sua vita. Perché, assicura, il rancore è stato superato dall’amore dei decenni successivi, “ma è necessario conservare la memoria del passato”.

Documenti Cia, il no dell’Italia alla dittatura argentina: “Niente azioni sul nostro territorio”

TI POTREBBERO INTERESSARE