“Los niños del Llullaillaco”, una delle meraviglie del turismo in Argentina. La provincia di Salta è conosciuta dai turisti che visitano il paese – stranieri e non – per i vini e gli spettacolari paesaggi andini. Spesso la città viene utilizzata come base di partenza per le escursioni sulle quebradas di Humahuaca e Purmarcarca, nella vicina provincia di Jujuy. La città di Salta, però, ha molto altro da offrire da un punto di vista culturale. Proprio sulla piazza principale, la 9 de Julio, si trova il Museo de Arqueología de alta montaña, vero e proprio gioiello tra i musei della regione.

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Al suo interno, vengono custodite ed esposte le mummie di tre bambini, vissuti più di cinquecento anni fa, testimonianze di un impero precolombiano ormai scomparso, ma le cui influenze e tradizioni restano ancora visibili nelle province andine del nord-ovest argentino.



“Los niños del Llullaillaco”, così chiamati per via del luogo del loro ritrovamento, a 6.700 metri d’altitudine sul vulcano della Cordigliera, sono stati una scoperta eccezionale avvenuta nel 1999. Le salme risalgono al periodo di massima estensione dell’impero Inca, tra il 1480 e il 1530, proprio quando gli spagnoli incominciavano a insidiare i territori dell’Impero del Sole.



Le mummie del Llullaillaco sono incredibilmente ben conservate per via delle temperature molto rigide, che potevano arrivare a -32°, e sono il risultato di una terribile cerimonia rituale. Questi bambini, di stirpe nobile, venivano condotti sulla cime delle vette andine, dopo aver intrapreso l’impervia marcia da Cuzco, più di 1.600 chilometri a nord del luogo di ritrovamento, al fine di ricevere la benevolenza divina, e per permettere alle famiglie dei martiri di entrare definitivamente a far parte dell’aristocrazia incaica.



La bambina più grande, la “Doncella”, aveva 15 anni quando venne sacrificata, e probabilmente accompagnava gli altri due bambini, più piccoli, verso il sacrificio. Di lei si possono ancora vedere i lunghi capelli finemente raccolti in piccole trecce; il viso, di cui si intravedono vividamente i lineamenti, è dolcemente appoggiato su una spalla, come se la ragazza fosse caduta addormentata in un sonno rassegnato. All’interno della bocca sono stati ritrovati frammenti di foglie di coca, che venivano utilizzate, ieri come oggi, dagli abitanti della regione per sopportare le altitudini elevate.



Poi c’è “La niña del rayo”, la bambina del fulmine, di soli 6 anni. È così chiamata perchè un fulmine, dopo la morte, le colpì parte del corpo. I segni sono visibili, ma non hanno cancellato dal volto della piccola un’espressione di terrore, sottolineata dalla bocca ancora aperta, come a lanciare un grido d’aiuto, come a cercare una via di fuga dal quel terribile sacrificio.


Infine il “Niño”, di sette anni, è con il volto contro il tessuto ruvido, dai colori intatti, della coperta che lo avvolge stretto, i capelli spettinati a ciocche, raccolti in una corda che sostiene, ancora intantte, delle piume bianche.

L’esperienza sconvolgente di questi tre corpi suscita nello spettatore delle emozioni vivide, creando un contatto empatico con una civiltà scomparsa da oltre cinque secoli, ma che ancora oggi è in grado di lasciare il proprio retaggio, soprattuto tra le tribù indigene loro discendenti.



Queste ultime considerano come un sacrilegio che questi martiri vengano esposti in un museo, e invocano la ricollocazione dei corpi sul vulcano. Se è difficile schierarsi di fronte a simili controversie, una visita al museo ci consegna un’immagine intatta e diretta del passato, e merita senza alcun dubbio una visita.

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